La formazione per i beni culturali
La disciplina dei percorsi di formazione e di qualificazione degli operatori del restauro.
Profili critici
Restoration Works: education and qualification under the new regulations. A critical analysis
The current regulation concerning education and qualification of restoration operators is still disjointed. Moreover, it proves to be unable of identifying these professions. Overlapping rules, hard interactions with contracts for public works regulation can be considered underlying causes of these difficulties, along with the complexity of any transition towards education and qualification systems based on strict regulation.
Pur vantando l'Italia una posizione di eccellenza nell'alta formazione dei restauratori di beni culturali e nella conservazione dei beni culturali secondo metodi scientifici, non esiste ancora nel nostro ordinamento una compiuta disciplina delle relative figure professionali.
Con queste parole si aprono le Linee guida recentemente emanate dal ministero per i Beni e le Attività culturali in applicazione dell'art. 182, commi 1, 1-bis, 1-ter, 1-quater ed 1-quinquies del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) [1].
Un simile incipit sintetizza con chiarezza la situazione in cui attualmente versano gli operatori del restauro italiani [2] che, seppur riconosciuti a livello internazionale per l'elevato grado di formazione tecnica conseguito, sono ancora soggetti ad una disciplina frammentaria, inidonea a garantire un'adeguata definizione delle figure professionali che operano in tale settore, con evidenti riflessi sulle condizioni lavorative e sulla tutela ad esse garantita.
L'origine delle difficoltà che contraddistinguono l'interpretazione e l'applicazione della disciplina di settore va ricercata, in primo luogo, nel carattere stratificato delle norme che la compongono, spesso volte a perseguire obiettivi differenti dalla sola razionalizzazione e semplificazione del sistema. Va in particolare rilevata, in tal senso, l'esistenza di una stretta interazione tra il settore in esame e quello degli appalti pubblici, che ha portato ad una progressiva evoluzione della normativa sul restauro secondo i principi (efficienza, economicità, concorrenza, ...) e gli obiettivi propri del settore delle opere pubbliche, come tali, tuttavia, difficilmente suscettibili di una applicazione generalizzata.
I primi interventi normativi in materia di qualificazione dei restauratori hanno origine dall'esigenza di razionalizzare il sistema degli appalti pubblici, a seguito del recepimento, nel sistema giuridico italiano, delle prime direttive comunitarie [3] e, successivamente, dell'entrata in vigore della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (c.d. legge Merloni), poi sostituita dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 [4]. Interventi con cui anche le attività di restauro e di conservazione dei beni culturali sono state progressivamente sottoposte alla disciplina degli appalti pubblici ed affidate mediante il ricorso a procedure di evidenza pubblica.
All'interno del sistema così delineato, è apparsa sempre più evidente l'esigenza di verificare su basi oggettive la capacità professionale degli operatori, superando la preesistente prassi "che vedeva il ricorso pressoché generalizzato ad affidamenti di carattere fiduciario" [5].
Con il decreto del ministro per i Beni e le Attività culturali del 3 agosto 2000, n. 294, adottato in attuazione dell'art. 8, comma 11-sexies della l. 109/1994, poi modificato dal d.m. 24 ottobre 2001, n. 420, si è così giunti ad elaborare la categoria di "restauratore di beni culturali" e di "collaboratore restauratore di beni culturali", con l'espressa indicazione dei requisiti necessari per il conseguimento di dette qualifiche. Si tratta, come desumibile dalla norma di cui è attuazione, di un intervento dettato dall'esigenza di garantire il corretto funzionamento delle procedure di qualificazione delle imprese che operano nel settore degli appalti pubblici, cui ha fatto seguito la disciplina dettata dal Codice (artt. 29 e 182).
L'art. 29 del Codice, in particolare, individua le tipologie, i contenuti e i metodi delle attività conservative dei beni culturali, rinviando ad una disciplina regolamentare delle competenze professionali (comma 7) e della formazione (comma 8 e 9) di tutte le figure professionali che intervengono a qualsiasi titolo nelle attività conservative.
L'attività istruttoria svolta dal ministero per i Beni e le Attività culturali in riferimento alla disciplina regolamentare introdotta dall'art. 29 si è conclusa solo recentemente, con l'emanazione dei d.m. 26 maggio 2009, n. 86 [6] e 87 [7], già preceduti dal d.m. 30 marzo 2009, n. 53 [8].
L'art. 182 del Codice ha invece inteso disciplinare la fase transitoria del nuovo percorso formativo degli operatori del restauro, garantendo il raggiungimento della qualifica professionale a tutti i soggetti già in possesso, al momento dell'entrata in vigore delle norme in oggetto, di un'adeguata formazione o di una comprovata esperienza in attività di restauro di beni culturali.
Con tale norma il legislatore ha inteso distinguere tra ipotesi di "riconoscimento diretto" della qualifica di restauratore, in presenza di requisiti individuati (comma 1); ipotesi in cui il possesso di requisiti differenti consente invece di partecipare ad una prova di idoneità, al cui superamento è legata l'attribuzione della predetta qualifica (comma 1-bis); e, infine, ipotesi in cui il possesso dei requisiti prescritti determina il conseguimento della qualifica di collaboratore restauratore (comma 1-quinquies).
Non può non sottolinearsi l'estrema complessità della norma in oggetto che, oltre a nascere dal recepimento di una pluralità stratificata di norme preesistenti, si pone il difficile compito di disciplinare il passaggio da una attività "di fatto", o comunque regolata in modo parziale e non univoco, ad una attività esercitata all'interno di un sistema di rigidi criteri di riferimento.
La disciplina così delineata dalle due norme in esame, integrata dai d.m. 53, 86 e 87 del 2009, anziché chiarire, in via definitiva, i contenuti della nozione di restauratore e di collaboratore restauratore, sembra invece aver aperto un ampio dibattito in merito alla loro attuale portata ed agli interventi ancora necessari per il raggiungimento di una disciplina omogenea della materia.
Numerose perplessità sono state sollevate in riferimento ai requisiti previsti dall'art. 182 per l'acquisizione del titolo di restauratore ed, in particolare, alla necessità di aver svolto attività di restauro "direttamente e in proprio, ovvero direttamente e in rapporto di lavoro dipendente o di collaborazione coordinata e continuativa", limitando, in tal modo, le attività valutabili ad un ristretto numero di ipotesi lavorative. Un'interpretazione restrittiva della norma porterebbe infatti ad escludere lavoratori ed imprese che non abbiano svolto gli interventi richiesti secondo le predette forme contrattuali, soprattutto laddove si consideri che in passato i rapporti di "collaborazione coordinata e continuativa" erano espressamente vietati dalla normativa in materia di lavoro e previdenza nonché da quella concernente i lavori pubblici [9].
Le stesse previsioni normative richiamano, accanto all'aver svolto attività autonoma o dipendente diretta, un ulteriore requisito, costituito dalla titolarità della "responsabilità diretta nella gestione tecnica dell'intervento", da dimostrarsi mediante presentazione del certificato di "regolare esecuzione dell'intervento di restauro", introdotto dal d.p.r. 34/2000. Le due previsioni in esame hanno sollevato non pochi dubbi di legittimità, specialmente in riferimento alla portata restrittiva che le contraddistingue.
Nel tentativo di chiarire la portata del requisito della responsabilità diretta della gestione tecnica dell'intervento, in particolar modo, il d.m. 53/2009 fa coincidere tale previsione con il ruolo "almeno di direttore di cantiere", modificando ed irrigidendo la previsione più generale contenuta nell'art. 182 e rendendo sempre più difficile per gli operatori del settore dare prova di possedere il requisito richiesto.
Sul punto sarebbe forse più opportuno adottare l'interpretazione elaborata dal Tar Lazio, nella sentenza 1 marzo 2004, n. 1844 in cui si legge che la "nozione di responsabilità diretta nella gestione tecnica dell'intervento, richiesta per il conseguimento della qualifica di restauratore dall'art. 7 del d.m. 294/2000, come modificato dall'art. 3 del d.m. 420/2001, non va chiaramente intesa nel suo stretto significato tecnico-giuridico, giacché è evidente che non può farsi carico a chi esegue effettivamente il restauro, dei rapporti e delle responsabilità che sono, sul piano giuridico, esclusivamente riconducibili all'impresa assuntrice dei lavori". Secondo il Tar Lazio sarebbe invece "plausibile che, con espressione non felice e comunque eccessiva e non appropriata al fine, il concetto di responsabilità diretta sia stato utilizzato per indicare soltanto la riferibilità dell'opera al suo autore o esecutore materiale, nell'ottica esclusiva dell'abilità tecnica e della capacità professionale dimostrate nella specifica circostanza. Sicché, appare da condividere l'avviso dell'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, allorché, con riguardo alla responsabilità diretta nella gestione tecnica dell'intervento, assume che la norma del decreto non precluda la dimostrabilità dei lavori, eseguiti dalla singola persona fisica all'interno dell'impresa".
Numerosi problemi applicativi sono sorti anche a seguito della previsione normativa che impone agli operatori del restauro di dimostrare la propria responsabilità diretta mediante la presentazione del certificato di "regolare esecuzione dell'intervento di restauro". Va infatti rilevato che, sebbene la previsione di tali certificati sia stata introdotta nel nostro ordinamento già a partire dal d.p.r. 34/2000, secondo quanto riconosciuto dallo stesso ministero per i Beni e le Attività culturali, la prassi relativa alla loro redazione "può ritenersi consolidata soltanto alla fine degli anni '90" [10]. La stessa Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, con Determinazione 3 aprile 2002, n. 6 ha posto in evidenza "l'estrema negligenza delle stazioni appaltanti nel rilascio del suddetto certificato". Ciò premesso, ne discende che per i candidati alla prova di idoneità per l'acquisizione della qualifica di restauratore - ai quali è richiesto di aver svolto (e di dimostrare di aver svolto) attività di restauro per almeno 4 anni prima dell'entrata in vigore del d.m. 420/2001 - risulta estremamente complesso documentare la propria attività mediante tale certificato.
E' pur vero che la norma prevede una clausola di salvezza per cui, in assenza del Certificato, gli Uffici interessati sono tenuti a verificare "ora per allora" la corretta esecuzione degli interventi conservativi, ma non si può non rilevare che il legislatore ha omesso di indicare i criteri oggettivi sulla base dei quali sia possibile condurre una simile verifica, rendendola, così, pressoché inattuabile, ovvero consegnando tale strumento alla più ampia discrezionalità dei soggetti preposti al controllo.
Alcune perplessità sono state sollevate anche dalla nozione di "collaboratore restauratore" e dalla sua relazione con la figura di restauratore, con particolare riferimento alla disciplina prevista per il conseguimento delle relative qualifiche. L'art. 29, comma 6, del Codice ha infatti introdotto una netta separazione tra le competenze riconosciute a queste due figure, prevedendo una riserva di competenza a favore del restauratore. La norma statuisce che "gli interventi di manutenzione e restauro su beni culturali mobili e superfici decorate di beni architettonici sono eseguiti in via esclusiva da coloro che sono restauratori di beni culturali ai sensi della normativa in materia". La distinzione tra il ruolo di restauratore e quello di collaboratore viene dunque individuata nel diverso grado di autonomia e di responsabilità che contraddistingue la relativa attività.
Tale impostazione solleva non poche perplessità se valutata in connessione con quanto disposto dall'art. 182 del Codice, ove si prevede che i soggetti che aspirano ad ottenere la qualifica di collaboratori restauratori sono chiamati a sostenere la stessa prova di idoneità prevista per i restauratori. Non si vede, infatti, per quale motivo a ruoli distinti, caratterizzati da forme di autonomia e responsabilità nettamente differenziate, nonché da diversi livelli di istruzione, non debba corrispondere un diverso percorso di qualificazione, fondato su prove di idoneità distinte per tempi e contenuti, in proporzione ai livelli di competenza e preparazione richiesti per le due figure.
Né pare sufficiente a superare tali perplessità l'intervento realizzato con il d.m. 86/2009, in cui si definisce quale "tecnico del restauro" il soggetto che "collabora con il restauratore eseguendo, con autonomia decisionale strettamente afferente alle proprie competenze tecniche, determinate azioni dirette ed indirette per limitare i processi di degrado dei beni ed assicurarne la conservazione, operazioni di cui garantisce la corretta esecuzione secondo le indicazioni metodologiche ed operative, sotto la direzione ed il controllo diretto del restauratore". Ci si chiede, sul punto, quali siano i motivi per cui il legislatore abbia scelto di introdurre una definizione di collaboratore restauratore differente da quella già richiamata negli artt. 29 e 182 del Codice. Da chiarire, inoltre, il richiamo espresso ad una seppur minima autonomia decisionale del tecnico del restauro, che appare difficilmente compatibile con la successiva previsione secondo cui l'attività svolta deve comunque essere realizzata sotto la direzione ed il controllo diretto del restauratore.
Dai rilievi che precedono sembra delinearsi una disciplina dei percorsi di qualifica degli operatori del restauro ancora caratterizzata da profili di incertezza e complessità applicativa. Difficoltà, queste, che nascono prevalentemente dalla stratificazione delle norme emanate in tale materia, dalla loro differente natura e dall'estrema difficoltà di passare da un sistema prevalentemente fondato su prassi consolidatesi nel tempo, ad un sistema poggiato su rigorose procedure di qualificazione, caratterizzate da percorsi formativi istituzionalizzati. Si tratta dunque di un percorso ancora lungo, a cui però né il legislatore né la dottrina e la giurisprudenza possono sottrarsi, laddove si voglia preservare l'elevato grado di formazione e professionalità che contraddistinguono i restauratori italiani.
Note
[1] Le Linee guida sono contenute nella Circolare del Segretariato generale del ministero per i Beni e le Attività culturali n. 35 del 12 agosto 2009, con cui si è inteso esplicare la disciplina transitoria degli operatori del restauro, così come previsto dall'art. 182 del Codice.
[2] Sul punto si richiama l'intervento di S. Foà, Formazione e aggiornamento degli specialisti del patrimonio culturale nel campo della tutela, al Convegno organizzato dalla regione Piemonte sul tema I beni librari: rischi, emergenze, prevenzione e conservazione, Torino, 13-14 ottobre 2009.
[3] In particolare: direttiva 92/50/CEE del Consiglio del 18 giugno 1992, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi; direttiva 93/36/CEE del Consiglio del 14 giugno 1993, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture; direttiva 93/37/CEE del Consiglio del 14 giugno 1993, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori; poi successivamente sostituite dalla direttiva 2004/18/CE del 31 marzo 2004 che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi e dalla direttiva 2004/17/CE del 31 marzo 2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali.
[4] Nel d.lg. 163/2006, Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, il legislatore ha dedicato l'intero Capo II, artt. 197-205) ai "Contratti relativi ai beni culturali".
[5] Linee guida del ministero per i Beni e le Attività culturali, Circolare n. 35 del 12 agosto 2009, p. 3.
[6] Regolamento concernente la definizione dei profili di competenza dei restauratori e degli altri operatori che svolgono attività complementari al restauro o altre attività di conservazione dei beni culturali mobili e delle superfici decorate di beni architettonici, ai sensi dell'art. 29, comma 7, del d.lg. 42/2004, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio.
[7] Regolamento concernente la definizione dei criteri e livelli di qualità cui si adegua l'insegnamento del restauro, nonché delle modalità di accreditamento, dei requisiti minimi organizzativi e di funzionamento dei soggetti che impartiscono tale insegnamento, delle modalità della vigilanza sullo svolgimento delle attività didattiche e dell'esame finale, del titolo accademico rilasciato a seguito del superamento di detto esame, ai sensi dell'articolo 29, commi 8 e 9, del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
[8] Regolamento recante la disciplina delle modalità per lo svolgimento della prova di idoneità utile all'acquisizione della qualifica di restauratore di beni culturali, nonché della qualifica di "collaboratore restauratore di beni culturali", in attuazione dell'articolo 182, comma 1-quinquies del Codice.
[9] Problemi di valutazione della sussistenza del requisito in esame potrebbero sorgere anche in presenza di un intervento svolto da restauratori appartenenti a società cooperative e consorzi di imprese individuali di restauro, rispetto ai quali si tratta di stabilire quale dei soci o dei restauratori consorziati sia stato titolare della prescritta responsabilità diretta. In tal caso, però, le Linee guida del ministero sembrano proporre una sorta di presunzione di solidarietà della responsabilità tra tutte le figure coinvolte (Linee guida, p. 13).
[10] Linee guida del ministero per i Beni e le Attività culturali, Circolare n. 35 del 12 agosto 2009, p. 12.
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